Parliamo di “che cos’era l’industria italiana”. Un tempo, un decennio fa circa ma non nella preistoria, quando si parlava di industria ci si “apriva” al concetto di una dimensione imprenditoriale a 360 gradi che da un lato produceva lavoro ed arricchiva quindi il territorio e che dall’altro si lamentava delle tassazioni alle quali era sottoposta ritenendo che le tasse fossero un disincentivo all’assunzione di risorse: sono discorsi che negli anni passati abbiamo sempre sentito e sono divenuti usuali e sempre presenti sino ai nostri giorni. Ora, ai nostri giorni, già parlare di industria “viva e vibrante” sta diventando veramente un’utopia poichè sempre più imprese sono costrette a chiudere, a fallire od a ridimensionarsi paurosamente e quindi licenziare risorse, ma è anche mutato il “disquisire” di lavoro dato che assolutamente sembra non “essere più presente” sul territorio del nostro Paese ed è un “miraggio” per quasi tutti i nostri giovani. Ergo, anche parlare di tasse sta diventando, quindi, utopistico poichè nessuno è più in grado di pagarle, anche se “regolarmente richieste” dal nostro Stato in cambio… di nebulosi ed asfittici servizi.
Un corto-circuito difficile da “disinnescare”. Ormai il nostro sociale è entrato in una sorta di corto-circuito: parlare di imprese è sempre più difficile perchè sono oberate di tasse, parlare di tasse è assurdo perchè il settore del lavoro è evanescente (e dove potrebbero le imprese attingere per essere regolari nei pagamenti), parlare di risorse umane impiegate sembra quasi inutile perchè, si sa, tantissimi ragazzi ed anche meno ragazzi “vagano” in cerca di qualche cosa che “non si trova” almeno qui nel nostro Paese e sono costretti ad “emigrare”. Così, anche il fenomeno del gioco lecito sta cadendo nel corto-circuito laddove è presente l’equazione “più ingressi erariali dal gioco” = “meno insediamenti e prodotti di gioco lecito e meno operatori”. Ne verremo fuori? Forse, ma con un “buon, anzi ottimo, elettricista”!!!