Qual’è il confine entro cui dibattere? È indubbio e giusto che la società, le organizzazioni, le amministrazioni abbiano “tirato i remi in barca” e, dopo aver spinto i cittadini verso il gioco d’azzardo -magari a volte ad oltranza- ora si rendano conto che il “rischio” è dentro ciascuno di noi ed il “gioco” è sfuggito di mano a chi ne tirava le fila. Quindi, giusto che i comportamenti socialmente nocivi vadano disciplinati e sopratutto che le istituzioni si facciano parte diligente ed intervengano su certe sfere di giocatori, ma il disagio che deriva dal mondo-gioco è una questione più complessa e complicata da affrontare: dove si trova il limite tra la legittimità del giocare divertendosi, e la patologia? Si può qualificare come malattia la scelta di chi, magari dotato di possibilità economiche “illimitate” decida di spendere i propri soldi alle slot, alle Vlt, alle scommesse divertendosi con gioia? Ognuno ha pieno diritto di fare ciò che vuole con il proprio danaro.
La responsabilizzazione per tutti deve essere la “regola prima”. È sicuramente da stigmatizzare il comportamento di colui che assume un comportamento “scriteriato” nei confronti del gioco -o di qualsiasi altro vizio- non avendo introiti adeguati, avendo un reddito fisso e limitato e con una famiglia da mantenere: in questi casi l’intervento delle istituzioni deve essere tempestivo, sicuro, presente ed orientare i comportamenti dei singoli che però facilmente si sommano a condizioni di disagio già esistente e, quindi, difficili da gestire. Qui scatta la “lotta contro il demone” -il gioco- poiché è più semplice fare così piuttosto che rilanciare l’occupazione, migliorare la qualità della vita, occuparsi della sanità in genere: nascono quindi gli inviti al gioco responsabile oppure proprio al non gioco. Questi spot e questi inviti sono solamente un calmiere emotivo ma non serve certamente vietare una cosa per disciplinare il comportamento di ogni singolo individuo. Ma lo Stato… in realtà cosa vuole?